franchino's way

23 marzo, 2021

Ciao Sante

Filed under: bologna,personalismi — ilkonte @ 1:00 PM

E ci ritrovavano lí, nella sala nascosta, perché c’eri tu.
E lí che si imparava a stare a sentire, in silenzio, perché c’era chi aveva più da dire e più da raccontare.
Lì a sbronzarsi cercando di trovare un contegno perché saper stare al mondo é un’arte che si coltiva anche in quelle situazioni.
Lì dove tutti venivano perché c’eri tu. E c’era da ascoltare, e sorridere, e incazzarsi, e prendersi per il culo, e aspettare il momento per dire la tua e sentire di aver trovato una casa.
Tra artisti e ubriaconi, cazzari e militanti, pallone e poesie, vecchi e ragazzini, turisti e residenti, eventi di beneficenza e feste meno serie.

Quanto ti abbiamo voluto bene, e quanto te ne dobbiamo.


Lì, nella sala nascosta, sono nate famiglie, amicizie fraterne, discorsi mai finiti.


Lì ci ritroveremo perché lí, anche lí, é te che ritroveremo.


Negli occhi che guardano un bicchiere vuoto, negli occhi che si guardano, negli sguardi che cercheremo da quando siamo rimasti un po’ più soli, lí dietro, da quando non c’eri più.


A continuare quei discorsi che mai finiranno.

Grazie di tutto, di cuore.

19 Maggio, 2017

In memoria

Filed under: personalismi — ilkonte @ 1:39 PM

Stiro la camicia. Io. Da due anni a questa parte io stiro la camicia. E metto una divisa. Io.
Qualcosa è cambiato. Io con una divisa addosso, bella stirata. Io.
Poi ti svegli una mattina, avvii la solita liturgia: caffè, sigaretta, bagno. Ma ti arriva un messaggio di un amico. E si rompe qualcosa dentro, si spacca un guscio, si riavvolge il nastro e cade tutto. E sei nudo. Tu, la tua vita, quello che sei, quello che eri, quello che sei stato. Il puzzle si rompe, ogni pezzo un gesto, un momento, una riflessione, una persona, un ricordo.
Senza parlare, in soggiorno, seduto sul divano, da solo. A riascoltare i tuoi ultimi 20 anni e passa. A specchio con le note e le parole. Col guscio rotto. E il groppo in gola.
Non ci posso credere che il tempo passi davvero. E che sia così infame.
E dire che il giorno prima un altro segnale era arrivato. Alla veneranda età di quasi 37 anni ho preso la patente di guida. All’esame davo 10 anni al secondo più vecchio. In macchina io, il 26enne padre e un ragazzino di 18 anni preoccupato di passare subito l’esame per evitare di doverlo rifare a giugno, con la maturità e il troppo caldo.
Io la patente l’ho presa solo perché andava fatto; per il lavoro, per arrivarci alle 4 di mattina, perché metti caso, non si sa mai. Altrimenti figurati…
Eppure prendo la patente e ripeto la battuta/tormentone di questi mesi:”sto diventando signorino”.
A piedi da sempre, senza compromessi. Eppure il tempo passa e quelli arrivano comunque. E ti costa il giusto farli. A 20 anni era diverso. Capello lungo, barba e “Zero Chance“. Che poi le chances le avrei anche avute ma il mio più grande pregio è lasciare le cose a metà, lasciarle andare.
Ora i compromessi con la vita sono una costante, una necessità. Sennò come mi pago la casa al Pratello, le serate, le chiacchiere, il tempo, il “pensavo fossi molto più giovane“?
Si rompe il guscio. Sono diventato signorino.
Se ne va chi mi ha cantato per 23 anni. E io sono più vecchio.
Ma la maglietta dei Soundgarden sotto la divisa me la merito, se la merita. Perché come mi ha scritto un amico “quella che tu chiami maglietta in realtà è pelle, e quella non può svanire”.
Per quello che sono, per quello che ero, per quello che sono stato.
Riavvolgi il nastro.
Grow and decay, it’s only forever.

1 aprile, 2016

Dopo quello che è successo, dopo tutto (petrolio)

Filed under: personalismi — ilkonte @ 4:29 PM

Dopo quello che è successo, dopo tutto, urge immediatamente un sequel di Basilicata coast to coast che fa tanto ridere e quant’è bella la vostra terra ci vorrei venire. Si però considera che è scomodo arrivare, ti consiglio di farci un passaggio al volo se devi andare in Calabria o Salento. Si, il Salento è relativamente vicino ma so’ comunque almeno 2 ore e passa di macchina. No no, in treno lascia perde proprio; ogni volta se devo scendere e penso che devo fare 8 ore di treno (se va bene), mi passa la voglia. Si, volendo è tipo l’Umbria però col mare, più selvaggia, meno arte e qualche zona desertica in più. Bella si. No, non me ne pento di essere qua. Cazzi miei.

 
Oppure ci vorrebbe proprio una storica nomina di Maratea, o Melfi, o Potenza, o Aliano, o Senise, ma pure Lauria, o anche un bis di Matera stessa a capitale europea di una cazzata a caso. Che si fa sviluppo, passi da gigante. Pensa, una volta era solo agricoltura e pastori e malaria ed ora cultura, grandi eventi, concerti jazz e mostre d’arte che nemmeno a Nuova Iorche. Noi una volta si andava ovunque nel mondo per un pezzo di pane e ora il mondo va giù e gli fanno le bruschette col pane nostro, quello bello a pagnotte da 4 chili. E’ un po’ che non me lo faccio mandare via corriere da mia madre; si conserva bene, dura un casino, non come quello finto che mangiate qua. Figurati che mi so’ ridotto a magnà le baguette della Coop. O il panbauletto.
 
Effess Uagliò..
 
Tornando alla nomina ci vorrebbe proprio, così facciamo festa, la diretta tv, due tarantelle, i briganti, la cultura contadina, caciotte, pecorino di Filiano, baccalà coi puparul crusc, na nzenga di Levi, salsiccia paesana, strascinati e ricotta, cutturiedd’ e cri cri cri bella mia gn namm sci.
 
Sennò qua si mette male, pare brutto, ed è peccato.
 
Cerchiamo di non fare figure di merda.
 
No ti dico… lascia sta il treno, non è cosa.
 
Aia piglià la macchina.

13 marzo, 2016

Grigio uniforme

Filed under: personalismi — ilkonte @ 10:24 PM
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L’opera d’arte ha sempre la capacità di germogliare dal tempo in cui è creata proiettandosi contemporaneamente nel futuro, verso gli sguardi di altri tempi e luoghi. Come testimonianza, affermazione di visioni, filosofie, dissapori. L’arte, anche quando è contro un determinato sistema o status quo, diventa quindi un emblema o simbolo di tutte le critiche a tutti i sistemi che si possano susseguire. L’artista quindi ha un molteplici tempi di vita: il proprio, radicato e relazionato alla sua contemporaneitá; il tempo assoluto del cammino della cultura e della sua stratificazione; i tempi di tutti  gli osservatori, ovunque essi siano, in qualsiasi anno vivano. Ogni epoca ecco che riesce a comunicare e lasciare proprie tracce che restino leggibili e interpretabili anche dopo secoli, anche con vocabolari e schemi interpretativi completamente diversi, a volte anche diametralmente contrastanti.

Cancellando le proprie opere Blu sta testimoniando quanto la nostra contemporaneità, nella sua bulimia e rapacità, non sia degna di poter lasciare un proprio segno, una propria testimonianza, se non seguendo logiche estranee al cammino della cultura e alla propria autonomia e libertà, arrivando addirittura a annullarsi, cancellandosi.

Noi, la nostra cultura, la nostra società, lasceremo muri grigi d’artista.

Gesto estremo e doloroso ma quanto mai necessario. Il problema però è uno e fondamentale; l’atto di cancellare un murale in strada, luogo del passaggio e della mutazione per antonomasia, vive dell’oggi e nell’oggi rimane. Un muro con una mano di grigio d’artista, se anche stesa sopra un capolavoro, sempre muro grigio rimane. E presto sarà altro. Sarà demolizione o imbiancatura. Sarà altro niente, senza memoria. Senza rughe. Senza parola.

Resterà solo il ricordo di chi c’era, chi ebbe la fortuna di vedere il prima e il dopo. La storia sarà già altrove a cercare e trovare altri emblemi o simboli. Magari in un museo o in un libro di foto d’epoca. Ma si sarà perso contesto e la stratificazione. Si darà per morta la radice e la fronda. Sarà pura memoria senza oggetto. Sarà arte evocata per fighetti di ogni tempo, facili allo sproloquio radical chic, o ennesimo esercizio di nostalgia e rimpianto.

Quello che è successo in questi giorni è di una tristezza infinita anche per questo. Ma non riesco a vederci un errore, un oltraggio o un danno, una espressione di egoismo estremo.

È il niente di questi anni che niente finirà per lasciare.

È il capolavoro estremo della post-storia pret a porter.

Teniamoci i nostri muri grigi che niente sapranno e niente diranno.

P.S.

Mi dispiace veramente tanto, cazzo.

3 gennaio, 2016

Bilanci e pesi

Filed under: personalismi — ilkonte @ 6:10 PM

Anno nuovo, tempo di bilanci, si dice.
Tuttavia è il termine bilancio che in questi giorni mi infastidisce. Richiama alla mente bilancia e quindi pesi, sforzi, cose da muovere per trovare equilibri. Ma si può usare qualsiasi cosa purché abbia una minima consistenza o corpo per fare peso, e non mi va di mettere su piatti diversi sentimenti e cazzeggi, persone e delusioni, passioni e vile denaro, lavoro e progetti, gente e gentaglia, diavoli e acquesantiere. Per cosa poi? Per una roba talmente instabile come un equilibrismo?
No, non è cosa.

Bilance, pesi, piatti e misure, che ansia. E’ lo stomaco, la testa o il cuore che ogni tanto dovranno risultarci pesanti, non il resto. Per loro, per le viscere, i postumi e gli organacci, c’è sempre tempo.

Godiamo dell’assenza di peso, oltre la leggerezza, respiriamo un po’ di futuro. Che il sogno non ha sostanza.

E no, non lo metti su nessuna bilancia, non sposterebbe il piatto di un millimetro.

E non c’è nulla di più stabile del non preoccuparsi dell’equilibrio e della staticità.

Buona leggerezza, buona aria e buoni sogni.

16 novembre, 2015

Je suis? (dopo Parigi)

Ho visto bandiere francesi sventolare sui social. Mesi fa vidi che tutti erano Charlie, anche quelli che senza l’attentato una rivista del genere l’avrebbero fatta chiudere, in Italia. Poi a volte siamo Norvegesi, altre volte Palestinesi, meno spesso Greci, c’è chi pensa ai Marò, chi all’Ucraina e ai Nepalesi. Siamo tante cose. Molto velocemente, fluidamente. Siamo quello che capita, insomma.

Il problema di fondo è che non sappiamo più da che parte stare, che non sia la nostra. Ma cosa sia la nostra parte non è più chiara, limpida.

Stare dalla nostra parte significa essere liberi di scrivere sui social? Di andare al bar? Di uscire la sera? Di scopare? Di andare a un concerto?
Solo questo?
La nostra parte significa rimanere nella nostra libertà di disporre del tempo libero e del nostro denaro?
Niente più?

E da che parte stanno allora a Kobane? Stanno solo dalla loro, di parte? Non è che magari li abbiamo lasciati soli? Non è che con le nostre infinite chiacchiere su pace/guerra, gasparri/salvini, americani/impero, fiori nei cannoni, pacifismi vegani, negri e clandestini, abbiamo semplicemente trovato un modo per stare meglio dalla nostra parte, al bar, mentre beviamo il nostro libero e democratico caffè macchiato freddo in vetro? Non è che, forse, non abbiamo più idea di cosa sia stata la nostra marcia verso quel barlume di “libertè-egualitè-fraternitè” che ci permette di scaricare un bel film il giovedì sera prima di fare la nostra gloriosa e illuminista scopata colma di libertà, nelle nostre emancipate case senza burqua, termoautonome, prima periferia con posto auto e sky è meglio di mediaset? Non è che, forse, non meritiamo di dire di stare dalla parte giusta della barricata a Kobane e ovunque davvero ci sia una lotta degna di tal nome, senza voto da casa, hastag del giorno, urlatori da salotto e pensatori da sottopancia e puzza di ascelle adolescenziali?

Sono domande che mi faccio da tempo, mentre forse spreco liberamente il mio tempo, impermeabile al mondo, fuori e ipersensibile al mondo, dentro, a casa mia, tra le mie mura, i miei amici, le mie cose. Poi il resto va da sé. Al massimo ci racconta un contesto in cui ci muoviamo, per darci una scusa di stare nella storia, ancora, come se fossimo vivi o per guardare qualcosa mentre mangiamo le nostre insalatine bio, zitti nei nostri chilometri zero, a pranzo o a cena, con la tv accesa tra uno spot e l’altro che forse mi compro la macchina nuova che non inquina che sono tanto eco.

O in fondo, a Kobane, non ci sono mai stati tutti ‘sti gran concerti, ‘ste gran vignette, tutto ‘sto movimento il sabato sera, e che un vodka lemon è difficile da trovare e magari te lo fanno con roba scadente. Anche se cazzo quanto so fregne le compagne curde col kalashnikov. Quanta stima. Eccoli i partigiani! Anzi le partigiane! Coi capelli al vento.

Mo chi cazzo glielo spiega però che per noi liberi e democratici la violenza è bbbrutta, che la guerra è bbrutta, che ci scorneremo tra chi è “bombarolo schiavo degli imperialisti” e chi “l’Italia ripudia la guerra”, tra chi “i partigiani italiani mica sparavano violette”, che “violenza genera violenza”, tra chi Libano e Palestina e chi Israele e la democrazia, chi Iran e chi Turchia, chi Assad e chi i compagni curdi, e chi Ghandi, Stalin, Lenin e Gino Strada, e Oriana Fallaci era ‘na zoccola esaurita o una grande intellettuale che se l’era sgamata, e chi se la racconta su facebook e chi se la legge, e Vendola e Renzi, i comunisti e i verdi e gli arcobaleni e Charlie e forse pure un po’ Ferrara e perché no Belpietro e chi non legge un giornale da 16 anni, e chi ci guarda solo le probabili formazioni.

Siamo sicuri che allora la nostra parte sia proprio quella giusta? No, non dico sbagliata, attenzione; dico quella più centrata, al passo coi tempi, culturalmente e politicamente adeguata alla realtà?  La parte giusta, come una maglietta; non è che portiamo qualcosa che non ci sta veramente così bene? Bella la scritta, bello il colore, ma forse sta un po’ stretta e comunque non ti ci vedi. Non è quella giusta. Allora la nostra parte ci veste bene?

Siamo sicuri che stando dalla nostra, di parte, coi nostri dibattiti e i nostri slogan, stiamo facendo la nostra, di parte, per qualcosa?Non è che pur di non stare con Fini, Bossi e Berlusconi e Salvini, o Prodi, D’Alema, Rutelli, Buttiglione e Bertinotti,  siamo ridotti a essere poco più che un “io non sono quello“. Non è che abbiamo grattato talmente tanto che non abbiamo più sostanza, spessore?

Questo nel nostro cortile italiano… e fuori? Cosa siamo tutti insieme? Cosa siamo io, un francese, un giapponese, un sudafricano, un inglese, un danese, un russo, un argentino, un islandese messi uno vicino all’altro? Chi siamo noi occidentali? Di cosa parliamo? Usciamo assieme va, facciamo un giro in centro che conosco un posto che fa le birre buone a poco. E ci sta pure gnocca che non guasta. E poi mi raccomando, se passi da Helsinki mi casa es tu casa.

No perché, ripeto, mi faccio da tempo queste domande e spesso la risposta che riesco a darmi è: NON LO SO. Oppure mi schifo. Ma spesso non lo so. Non lo capisco più. E vado al bar, con gli amici liberi e democratici. Tanto non ci posso fare un cazzo. Io NON SO. Stiamo sbagliando tutto? O forse, senza fare un cazzo, siamo comunque destinati al meglio? NON LO SO. E quando la Storia mi bussa alla porta non so mai che maglietta mettere, non so quale sia quella giusta.

Sarebbe il momento di chiarirci un attimo. E capire davvero che anche non facendo nulla e discutendo stiamo scegliendo una parte e stiamo lasciando che le cose accadano, sotto le nostre parole.

La situazione è complicata, grave. Proprio per questo dovremmo prendere una posizione, scegliere una barricata e appoggiarla, rinforzarla, dargli spessore. Da qui potrebbe nascere tanto della Storia che sarà.

Da qui potremmo dare un senso a quella che è “la nostra parte”.

Ma la domanda fondamentale è: Come?

Il problema è che forse ci manca un vocabolario per poter parlare, pianificare, immaginare, scegliere, disegnare.
Spero di cuore che altre bandiere ci riconsegnino le parole per dirci chi siamo e cosa vorremmo che il mondo sia. Non solo quelle pret a porter post tragedia.

Io intanto guardo questa foto, dopo Parigi e si, spero che sia quella la bandiera che continui a sventolare, con la sua bella stella.

Che sventoli e si riempia anche del mio senso di colpa e di inadeguatezza.

Che quella ragazza continui a guardare l’orizzonte, oltre i nemici, per dirmi che il sole sorge per tutti e per tutti tramonta.

E che vaffanculo la retorica certe volte ci vuole per far battere un cuore.

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27 luglio, 2015

Il fruttarolo (la resistenza che ti vende il pomodoro… 17)

Come pararsi il culo
e la coscienza è un vero sballo
sabato in barca a vela
lunedì al Leonkavallo
l’alternativo è il tuo papà (Afterhours)

Devo alzarmi, devo reagire. Attorno tutto scorre e si beve e si parla e io sto qua accasciato a terra. Serve uno slancio da campione, mantenendo dignità e stile. Senza dare l’impressione di cedimenti. Alzarsi e rimanere dritto, basterebbe questo.

Primo tentativo: punto bene i piedi a terra cercando di sollevarmi dal gradone. Svarione. Desisto.

Gli altri non hanno visto nulla. La ragazza del pesto brilla di sorrisi e battute. Il Tappo trottola qua e là con battute no sense e parlata sempre più liquida, consonanti sempre più impastate. Il bastardo sta subendo il vodka lemon ma non molla. Il Sardo ronza attenzioni per qualsiasi esemplare femminile a vista.

Secondo tentativo: prendo la birra, poi la riappoggio alla mia sinistra e mi aggancio con la mano destra alla colonna del portico. Il Baraccio è il solito white noise di fondo. Una goccia di sudore scende sulla schiena, dritta in mezzo alle chiappe. Sforzo, mi sollevo di 10 centimetri buoni, pausa. Ultimo slancio, colpo di reni e via, sono in piedi.

CAZZO LA BIRRA!

E’ rimasta sul gradone. Se mi piego casco di testa a terra.

E’ una sensazione orrenda essere ubriaco fisicamente e mantenere un minimo di lucidità mentale da riuscire a vedersi da fuori. Roba che non si può spiegare. Sei sul limite. Un goccio di qualsiasi alcolico è automaticamente perdita di tutto. Ma arrivati a questo punto devi bere. Altrimenti è l’agonia dello sbronzo che non sa, non può, non riesce ma capisce, vorrebbe, penserebbe di farcela. Tra stare sul limite e soffrire o mandare tutto a puttane io scelgo sempre la cosa al momento più semplice. Le buone intenzioni, la ragionevolezza, la responsabilità, i bei sentimenti, e pure babbo Natale, sono per i mangiatori di seitan e i bevitori di caffè decaffeinato. Io sono di un’altra razza, quella brutta. Di tutto il resto non me ne frega un cazzo, francamente.

Il Tappo rulla dalle mie parti:”Apposto?”

“Mmmh…”, sfiato.

“Apposto”, sentenzia.

La ragazza del pesto punzecchia con uno sguardo lampo.

Io mi appoggio alla colonna progettando di riprendere le forze e forse riprendere la birra.

Sono quegli istanti di pace a cui ti aggrappi, quelle alitate di speranza e orgoglio che ti tengono a galla. E’ la tigna del ciclista in crisi sul Pordoi che col suo passo, tutto ingobbito sul manubrio, con le gambe dure, torna sul gruppo dei migliori e resta appeso coi denti all’idea che c’è possibilità di farcela, manca poco, gli altri non attaccheranno.

E invece arriva un altro attacco.

Un piede urta la mia birra che schizza sul mio pantalone. Il boccale si frantuma a terra.

“E che cazzo” fa lui tutto polemico.

Resto impassibile cercando di non barcollare.

“La ripaghi”, riesco a sospirare.

“Stocazzo”.

Arriva il Tappo e la ragazza del pesto e gli si piantano davanti. Non danno l’idea di essere tutta sta minaccia e francamente mi da anche un po’ fastidio non riuscire a reagire come vorrei, come il mio abito esigerebbe. Ma la mia impassibilità, la mia camicia bianca e cravattino nero fanno comunque la loro porca figura. Per il momento va bene così, forse.

“La ripaghi…”, ripeto con l’adrenalina che pian piano ricomincia a scorrere.

E questo parte con una serie di frasi a caso sul non si fa, non si poggiano le birre a terra, che c’entra lui, che ne sapeva, colpa tua, vedi che stai ubriaco, come parli, non ti reggi in piedi, eccetera eccetera. E io che pensavo di essere tornato lucido.

A quel punto scosto il Tappo, faccia a faccia col coglione:”Ascolta, tu ora prendi e mi ripaghi la birra… E non devo stare qui a darti motivi per ripagarmela. Ho rispetto per la mia intelligenza.”

Il Tappo rincara:”E in ogni caso c’è un detto che dice che la mia libertà inizia dove finisce quella degli altri. Tu ci sei caduto tra le palle. Quindi entri e paghi la birra”. Il filosofo dei cicchetti… La ragazza del pesto sorride alla battuta brindando enfeticamente  col Tappo e chiunque gli capiti a tiro.

La scena pare aver attirato l’attenzione sia dei Paeselliani doc che dei Paeselliani occasionali.

E forse il solo “Apposto vez?” rivoltomi da un local di 2 metri per 2 pare convincere l’imbecille che scompare nel bar, si affaccia al bancone dove è già pronta la mia birra con tanto di scontrino. Il Sardo precede il tipo aprendo tipo Mosè la gente sotto il portico.

“Saluti dal Paesello” gli dico mentre prendo il boccale.

Faccio un rutto. Applausi.

Ma il Pordoi è ancora lungo.

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18 giugno, 2015

Il fruttarolo (la resistenza che ti vende il pomodoro… 16)

How smart are you to regress unfulfilled?
It’s a damn shame, but who’s to blame? (Pantera)

E’ un po’ che non lavoro, che sto in malattia. Inizio a rompermi le palle a non far nulla. Mi spiego, è sempre bello godersi qualche tempo di riposo, evitare le rotture di coglioni dei colleghi o delle routine giornaliere. Ma alla fine, passano i giorni, e inizi a sentirne la mancanza. Ti senti scarico. Al Baraccio poi ultimamente i discorsi sembrano accartocciarsi e così anche il bianchino con gli amici mi fa noia. La briscola poi ultimamente gira pure male. Il Tappo è andato in vacanza con moglie e figli, che dice che stanno a fare grandi e presto inizieranno a farsi vedere sempre meno e se li vuole godere. Con l’età qua mi pare che davvero stiamo diventando tutti più coglioni di prima.

Io non ho di queste preoccupazioni. Non ne ho più. Non ne voglio avere.

Anche se, qualcosa manca.

Da bambino mi piaceva tantissimo giocare con le costruzioni. Ne avevo una quantità spropositata. Passavo ore in camera a costruire torri, castelli, casette, chiese. Che poi spesso erano più o meno sempre la stessa cosa con qualche piccola innovazione di tanto in tanto. Col tempo iniziai anche a combinare i mattoncini di legno con quelli della Lego e mi sentivo troppo orgoglioso quando arrivava il nonno o la mamma e si complimentavano con me.

La cosa più bella era però poi distruggere tutto. Prendevo una macchinina, o un mattoncino di legno e SBAM!, colpivo la torre. A volte barcollava prima di schiantarsi di lato, altre volte collassava. Il rumore dello schianto mi piaceva tantissimo, con tutti i mattoncini che schizzavano via sul pavimento. E immaginavo fiamme e fumo e polvere. Come in tv quando vedevo le immagini di Beirut o di altre guerre lontane. Con i palazzi che venivano buttati giù a cannonate. Lo schianto era il vero obbiettivo di ore e ore di costruzione. E la costruzione era funzionale alla distruzione finale. E più solida era la struttura, più divertente era il bombardamento.

Questa smania di equilibrio, stabilità e distruzione ce l’ho dentro da sempre forse. E’ insana. Ma è un mio piccolo piacere masochistico. Ho bisogno di vedere le mie cose cadere a pezzi. Per sentire il rumore che fa. Per vedere dove finiscono i mattoncini, forse con la speranza che qualcuno arrivi dalla stanza di fianco e mi sgridi per il rumore, per il disturbo.

Anche adesso che ho superato i 50, cammino da solo e da solo vado verso la mia torre, cercando il punto migliore da colpire per farla crollare. Per vedere le macerie e immaginare fiamme, fumo e polvere.

Per rivivere, anche solo immaginandole, le guerre degli altri che ho visto in tv.

Uno la guerra se la porta dentro, mi pare sia una frase che ho letto da qualche parte. E’ bellissima.

Costruire e distruggere.

Alla fine è come lanciare una monetina. Un lato, spesso, vale l’altro.

E’ solo una questione di tempo, o di turno.

(Continua)

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11 giugno, 2015

Il fruttarolo (la resistenza che ti vende il pomodoro… 15)

Come mosche della scorsa estate
che d’inverno sono ancora qui
e rivangano immondizie andate
scontente della vita ma immuni al diddittì (Sergio Caputo)

“Perché non parli?”

“E che ti devo contare

“Ma sei scemo?! Mi hai scritto tu vediamoci!”

“Ti volevo vedere, infatti”.

Tavolino del bar sotto i portici, prima periferia. Quei portici moderni, poco romantici, molto anni ’70 col finto marmo e il pavimento lastricato. La strada scorreggia motori, un forno aperto verso le case. Neanche il caldo quest’anno porta silenzio.

Come da bambini, le 3 di pomeriggio al paese erano il tuo regno. Quel silenzio denso che te lo spalmavi addosso, l’afa, la bicicletta appoggiata sul muretto all’ombra, il ghiacciolo coi soldi di nonna, il pallone per una tedesca. Avanzava il pomeriggio e col fresco arrivava il chiasso dei grandi, dei loro sguardi, delle loro parole sempre uguali, delle loro auto, delle loro battute e risate del cazzo.

E’ cambiato anche il silenzio.

Un anziano in pantaloncini grigi, cortissimi, e due gambine sottili sottili infilate in calzini bianchi e sandali di cuoio. La canottiera larga, cappellino di paglia in testa. Dal mondo che fu porta il suo silenzio. Quello del caldo. Si siede, prende a sventolarsi col cappello. Acqua tonica, ghiaccio e limone.

Avrei voluto ridere di lui. Vent’anni fa, da giovane, l’avrei sicuramente fatto.

Ora no. Mi rassicura. Quando sarò vecchio forse metterò anche io i sandali col calzino e degli orribili pantaloncini cortissimi stile coloniale. I vecchi, passano i decenni, sono sempre uguali. Per loro non ci sono mode che cambiano. Prendi e inizi a vestirti, comportarti, parlare, da vecchio. E un vecchio del 2013 era come quello del 1992 o questo qui di ora. Per questo ora mi rassicura e non mi fa ridere.

Con 35° e zero vento non c’è tanto da parlare. Non c’è molto da raccontarsi in una giornata così. Deve vincere il silenzio.

E non sempre “vediamoci” significa “passiamo il tempo dicendo cose”. Passare cosa poi, forse perdere.

Il caldo va subito e assaporato; non va assecondato, non va consumato con chiacchiere sull’umidità, sul sudore, sul lavoro, sulla famiglia, sulle ferie. O su qualsiasi altra cazzata inventata per perder tempo o passare il proprio tempo a qualcuno.

Col caldo non ci sono problemi degni di essere presi in considerazione.

Il caldo ha la sua liturgia di lentezza e fissità. Eterno presente. Pesante, stantìo, bloccato.

Va rispettato.

Anche per questo mi sono alzato e me ne sono andato.

E anche questa volta lei non capirà. Non lo capirà mai. Non ha mai capito niente.

Più tardi s’è alzato il vento e tutto è tornato come prima, normale, con le lancette che girano.

E forse più tardi avremmo potuto anche parlare.

Ma anche questa volta non ho voluto aspettare.

(Continua)

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23 Maggio, 2015

Il fruttarolo (la resistenza che ti vende il pomodoro… 14)

Yeah, it’s fine
we’ll walk down the line
leave our rain, a cold
trade for warm sunshine
You my friend
I will defend
and if we change, well I
love you anyway (Alice in Chains)

Sognare in fondo è il modo che ha il nostro cervello di metterci e mettersi alla prova. Lui prende e spara cose a caso, o fintamente a caso, e ti mette di fronte all’imprevisto, alla totale insensatezza, all’inaspettato. Lui prende e ti fa sperimentare sentimenti, emozioni e azioni che forse mai in vita tua hai avuto modo di vivere, o che da tanto tempo non vivi o che hai paura di dover prima o poi affrontare. Per tenerti pronto. Metti caso… Sognare è un esercizio di sopravvivenza. Come quelli che si allenano alla corsa; metti caso ti trovi un leone sulla strada e devi scappare. O quelli che si allenano a non fare niente; metti caso diventi presidente, re, imperatore, impiegato in regione.
Tutti abbiamo sognato, a volte da svegli. Il bello del sogno è che però finisce. Il brutto è che ci siamo svegliati tutti col torcicollo, incapaci di guardare chi avevamo a fianco. L’unica cosa possibile era guardarsi la punta dei piedi. E via andare, passo dopo passo, senza vedere chi avevi a destra o sinistra. Senza sapere cosa o chi avevi alle spalle.
Non so se in qualche sogno ho mai avuto il torcicollo. Forse mai. Forse non l’ho mai ricordato.

Alla fine la stanza è comoda, pulita, silenziosa. Il tablet funziona e riesco a tenermi in contatto col mondo, quello fuori.
Alle 8 c’è visita e devo stare tranquillo. Ieri ho dato di matto, un’altra volta, perché non mi vogliono ancora far uscire. Io ho una vita fuori, pare gli abbia detto. Ma non ci credevo neanche io. La mia vita è stata sempre dentro qualcosa. Ma ci stavo bene, figurarsi. Io non sono mai stato un nomade. Il Tappo ha detto che sono più tipo una talpa. Scavo, sto sotto, non mi faccio vedere, sto tra vermi e terra umida, al buio, nella tana.
Che poi non so quanto possa essere vero, ma quello fa sempre l’intellettuale da quando lo conosco. Ha il vizio della metafora. Se se lo leva gli resta solo la briscola e il bianchetto al Baraccio.

Che poi lo chiamiamo ancora Baraccio, noi vecchi. E chiamiamo ancora il posto dove ci siamo rintanati Paesello. Siamo tipo gli ultimi romantici, rimasugli. Pesce ributtato a mare quando si tira su la rete. Pesce buono per la frittura, in mancanza d’altro. Ma che non vale un cazzo al mercato. Noi siamo questo. E per fortuna, o per sfiga, siamo sempre rimasti fuori dalle casse del mercato.
Eppure tutto è cambiato, tutto si è trasformato. Ora è un quartiere cool, in. Uno di quei posti dove ingegneri, avvocati e bottegai sinistroidi vengono a fare “il popolo” nei loro appartamenti di design. E’ la via “verde” per le bici da 4000 euro. E’ il quartiere pop con il ristorante radical da mezzo affitto a persona. E’ la galleria d’arte contemporanea e la fonte di ispirazione per il visual-conceptual-artist o per il “creativo”.

Ma la gente vera dove cazzo è finita?

Ci siamo noi vecchi. A fare da ancora, a dargli la scusa, ai nuovi arrivati, che quello sia ancora il Paesello. Che poi il Paesello non è mai stato un cazzo. E’ stato sempre una scusa. E epoche diverse hanno trovato ospiti diversi. Tutti con una a trovarsi una scusa del cazzo, diversa da quelli che c’erano prima.

Perché alla fine tiravano su la rete e tu là rimanevi. Perché non valevi un cazzo, probabilmente.

Trovare una scusa e rintanarcisi dentro. Forse è l’unica “resistenza” possibile. Che amarezza, mi pare di bestemmiare quando dico ‘ste cose.

Entra il medico, controlla la cartella sul palmare. Dice qualcosa all’assistente che annuisce.

“Quando esco dottore?”
“Per andare dove?”
“A casa.”
“Ci vuole ancora un po’ di tempo, abbia pazienza. I valori stanno pian piano rientrando ma conoscendola preferisco tenerla in osservazione qui.”
“Non si fida di me?”
Lei si fiderebbe?

Ma vaffanculo, dottor Marco Huang, cagariso. E dire che una volta c’era la leggenda che non s’era mai visto un cinese in ospedale. Ora fanno i primari.

Però, pare, mi abbia salvato la vita, il cagariso. E che cazzo gli vuoi dire a uno che ti salva la vita.

No, quale razzismo. Non mi frega un cazzo di ‘ste menate. Io quando ero giovane avevo già previsto tutto, lo respiravo il nuovo tempo che arrivava. Non a caso mi misi a fare il fruttarolo dal pakistano sotto casa. Ero come loro. E loro come me. Era solo questione di tempo per diventare alla pari. Che poi alla fine ce n’è voluto un po’, un bel po’ di gente ha avuto il torcicollo per qualche decennio buono: paesanotti, ignorantoni, grevi, mezzi falliti, frustrati, leghisti terroni, fascisti liberali. Incapaci di stare al mondo. Gentaglia insomma. Ma la gentaglia è la massa in questo paese, da sempre.
E anche questo l’avevo capito.

E sono stato regolarmente ributtato a mare.

Peccato che scavando scavando avevo capito tutto di quello che si muoveva in superficie e troppo poco di quello che scavavo dentro di me. Ma vabbè. La vita si vive. E se non gli sai dare un senso, si consuma. Tanto alla fine… cambia un cazzo. Sarei finito qua dentro forse qualche anno più tardi. Forse.

Ma in fondo, chicazzosennefotte.

Dottor Marco Huang, primario cagariso.

Ma vaffanculo va’.

(Continua)

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